Capitolo 96 Johnny Mox album The future is not coming but you will

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Non c’è da dire… Seven Seagul è un buon cuoco vegetariano e il risotto alla boscaiola che fa è puramente divino. Stavo quasi a leccare il piatto, che l’interfono della caffetteria dei officiali scricchiola penosamente, è Jones ed ha notizie per me:

- Gavitello attivo, Capitan… Johnny Mox nel 195, 21 miglia, profondità 050.

E dietro di noi, dobbiamo virare. Premo il pulsante per rispondere:

- Affida la manovra di giravolta al secondo, chiedi al Capo centrale di preparare il rapporto, e a Jenkins di mettere la strumentazione in funzione, arrivo subito…

Il capo centrale prende la parola al mio arrivo nel centrale:

- C’è stata una leggera sorpresa sul caso “Mox”, Capitan…. Due settimane fa intorno alla fine settembre è stato pubblicato su band camp un EP che è stato registrato in Marzo 2013 a l’epoca di “We= trouble”.  La riedizione del EP ha interferito con il nostro rilevamento e ha provocato l’attivazione del gavitello lasciato in posizione a l’epoca.

- L’abbiamo a portata di strumentazione?

- Si. E appena finita la trasferta dati dello spettrometro e dello scanner ci vuole dare un’occhiata?

- Son il Capitan…

Lord Only Knows how many times I cursed these Walls” è un EP strumentale di 4 tracce, suonate alla chitarra e masterizzato dall’eclittico Klaus Brunnen. Corrisponde chiaramente alla “musica sedimentare” di Johnny. Quel tizio scrive a strati, cumula spessori, impila livelli per ottenere un prodotto finale a forma di “mille feuilles”. “King zoltar” la traccia principale estende la sua atmosfera country western sopra 5 minuti. Le prime corde percosse appaiono nell’introduzione del EP. Seguono due croccantini di 2 minuti circa; il calmo e contemplativo “Moon boots” e uno stupendo “Black bowels” con di nuovo, corde colpite e del hand clapping ispanizzante. Ancora corde percosse sull’ultima traccia “Inner jewellery”. Le corde battute generano armoniche metalliche che accentuano come guglie su l’orizzonte, il rilievo generale del suono. Rimane pero una tecnica vergognosamente rubata a Granfranco Baffato: (qui un link da seguire per svelare la verità). Questo EP sembra essere in riedizione per annunciare la tinta del nostro rilevamento:

The future is not coming but you will” L’album è diverso dagli due precedenti ma ritroviamo i soliti sassolini bianchi che Johnny lascia sul suo cammino: la beat box fatta alla bocca, l’onnipresenza dei loops, il passaggio dietro tutti strumenti del album, tranne il basso suonato da un certo Irgen Onafets [sicuramente un nome di origine Bellunese] e l’uso del cerotto che passa dal ginocchio adolescente della cover di “We=trouble” al muro di “The future...”, come per simbolizzare le azioni umane di salvataggio del mondo, di fronte al danno strutturale fatto attraverso i secoli e su di quale possiamo solo applicare un po’ di trucco. Una cover minimalista, ma piena di sensi e di profondità, qualcosa di notevole, che aggancia l’occhio; Arte. La gran maggior parte dell’album è su un tempo lento certe volte veramente lento.

Ascoltiamo l’accento esagerato della voce di Johnny tirata volontariamente verso i bassi. “Battle fields” è un lento tenebroso, un tantino scuro. Un loop di chitarra ritmica ci porta verso poche aggiunzioni; vari loops di percussioni vocali e una telecaster che sorvola la scena, in quota. Perché casomai succedono guai “They won’t search your body, they won’t search your body here

Video di laurea e prima canzone estratta da l’album già da luglio scorso; “Destroy everything” è un lento veramente al passo. Batteria e tastiera si aggiungono alla processione. Potrebbe essere la canzone per un essere caro, compagna o figli, che passa fra giochi, protezioni e consigli per il futuro: Grow your doubt and feed your fears and try anything twice, keep on running and dreaming free and wrestle with the skeptics

“Still Praising” appare subito come un’esperienza upbeat benvenuta. C’è qualcosa di famigliare pero nel contenuto, si tratta di una nuova versione di “Praise the stubborn” canzone estratta da “Obstinate sermons” del 2014.  Il basso di Irgen riempie generosamente le parte ritmiche della traccia, composte di “human beat box” mentre un accordo unico di sintetizzatore avvolge della sua ragnatela, la quasi totalità del pezzo.  Tempi pieni di dubbi a l’orizzonte: “The harvest is past, the summer has ended and we’re not saved” Valeva la pena tuffarsi di nuovo su questa nuova versione, perché il risultato è più che convincente. Rimane solo da definire chi sono i “testardi” …

“A Dangerous summer” accoglie Laura Campana al coro, il suo nome è nell’archivio dalla sua presenza negli “22 gennaio” e successivamente nei “Metheopatics” sembra oggi al basso in “Hallelujah” . Il suono di rullante sembra venire di una drum machine, sintetizzato fra mezza luna, e hand clap metallico. Si sceglie la resistenza contro un sistema oppressante come Sarah Connor lo fece in Terminator. Questo album inizia a prendere una tinta piuttosto scura e più andiamo avanti, più oscuro diventa.

Rimaniamo quasi sul tema su “Robots” che sembra famigliare, pure essendo una canzone nuova. Sempre su il tempo lento, parliamo di un’altra invasione (va di moda) quella delle macchine: “Five billions jobs at risk, Automation apocalypse, Middle class are starting to quake, As the robots are about to wake” in fondo, l’Uomo non ha bisogno di nessuno per spingerlo verso la sua perdizione. Proseguiamo come se niente fosse…

“The cleanest” arriva progressivamente, trascinando i piedi, sotto un cielo di piombo… più si va avanti nell’album più la progressione svella un ambiente in bianco e nero, siamo oltre la meta dell’album e ci sembra entrare in una galleria, e non si vede luce dall’altra parte.... Ogni colore è sgocciolato fuori dal quadro. “We thought we had a future but instead we have a debt, I chose to bet on refugees rather than you dead”.

Seconda esperienza leggermente più sollevata della galletta “Bitterlake” sembra una danza della pioggia -come se non c’è ne fosse abbastanza in questo momento- cantato in “native american”. Il ritmo ossessivo è rialzato dal rumore distante di una tastiera che scricchiola un accordo unico, allungo tutto il pezzo.

“99.9%” conferma l’oscurità che ci cade addosso da tutte le parte: “There is a huge crack in everything, the darkness soaks in from every slit” è la stressante constatazione dello stato generale di una vita imprigionata da sé stessa. Il ventaglio di possibilità che avevi sin dall’inizio, si riduce mentre vai avanti… E un imbuto… la vita ha la forma di un imbuto, e la tua condizione sociale te lo fa prendere in questo senso. Non preoccuparti, ci sono quelli che creano queste condizioni per te, solo per potere viaggiare nell’imbuto a contro corrente. Credo siano un po’ più di 0.1%, pero.

“You are not special” viene confermare questa tesi; mettere un altro chiodo nella barra. “Class consciousness is forever lost”. La lotta di classe che seguiva nostri passi è persa anche lei, fra il ritmo dell’human beat box, la brillanza della chitarra e del basso distante, che camminano al passo del funerale di una vita qualsiasi.

“Send from the future” è l’ultimo brano e sembra cominciare intorno a un fuoco di quel che rimane di una civilizzazione perduta. Chiudendo gli occhi ci si può anche indovinare le rovine, macerie, l’aspro odore del fumo. C’è un’atmosfera Terminator… di nuovo. “What is born now will grow in captivity”. Chitarre e basso distanti formano un fondale su di quale un testo è declamato; riconosciamo il primo blocco di testo estratto di “O Brother” con tastiere che si lamentano nella distanza scortate da tamburi. Il blocco seguente proviene da “Endless scrolling” che sono rispettivamente la quinta e sesta traccia di “Obstinate sermons” le due canzoni son state fuse per farne una sola. La seconda parte è marcata da una batteria campata su un ritmo pesante, che accentua la sveglia penosa di chi vive brillantemente oggi, la faccia su uno schermo: “It's gonna be true, and It's gonna be offline, It's gonna be real, and It's gonna be offline, It's gonna be dangerous, and It's gonna be offline”.

Ecco un album scuro, al ritmo generale pesantemente lento, dominato dalle chitarre e di una voce teatralmente bassa, al tonno cupo.  Johnny Mox prende il suo tempo per registrare, possibilmente da solo, nel suo home-studio le sue canzoni, al suo modo e al suo ritmo. Sa circondarsi dei migliori musicisti Trentini per portare sul palco una formula che ci manca di sentire, visto la distanza che ci separa. Siamo ancora avidi di mettere la mano sul vinile del Live a Santa Massenza che avevamo provato di acquistare qualche anni fa, storia di rendersi conto. Vorrei consigliare di scaricare da band camp l’EP insieme a l’acquisto di questo album. Solo per sentire delle chitarre suonate in un altro modo.

Concludiamo questa missione e mi sento di lanciare a chi vuole sentirlo nel centrale operativo:

- Non so ben miga... quasi, quasi mi farei un’altra fettina di chitarre in questo momento. Che c’è in giro?

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